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MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO

 

MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO Il Museo Etnografico Russo di San Pietroburgo, fondato nel 1902 per editto dello zar Nicola II, è uno dei più grandi del mondo. Nelle sue collezioni si conservano circa mezzo milione di reperti, tra i quali oggetti di uso quotidiano, materiali di archivio, disegni, pitture, litografie e fotografie di documentazione dei secoli dal XVIII al XX secolo. Lo scopo del museo di San Pietroburgo è documentare e conservare le culture tradizionali di oltre 150 popolazioni che vivevano nei territori dell'ex Unione Sovietica: Europa dell'Est, Siberia, Estremo Oriente Russo, Caucaso e Asia Centrale.
L'Unione Sovietica fu una delle nazioni più diversificate del mondo, dal punto di vista etnico, con oltre 100 distinte etnie nazionali che vivevano all'interno dei suoi confini. La popolazione totale venne stimata a 293 milioni nel 1991. L'Unione Sovietica era talmente estesa, che anche dopo che tutte le sue repubbliche hanno ottenuto l'indipendenza, la Russia, rimane la più grande nazione per superficie, ed è ancora abbastanza differenziata dal punto di vista etnico, comprendendo, ad esempio, minoranze di Tatari, Udmurti, e molte altre etnie non russe.

 

 

Breve storia della colonizzazione

MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO L'impero plurinazionale russo si è formato attraverso un'espansione che è durata molti secoli. Si caratterizza per una grande varietà etnica, confessionale, sociale e culturale. I diritti delle minoranze sono sempre stati rispettati in modo diseguale. All'interno del grande impero russo, comunque, molte di queste culture non sono riuscite a sopravvivere fino ad oggi. La lealtà zarista era la condizione principale per un rapporto non conflittuale con Mosca.
In seguito al continuo processo di espansione e riordinamento territoriale della Russia la percentuale dei russi sul totale della popolazione continuava a calare. Mentre alla fine del 1500 le etnie non russe toccavano appena il 19%, all'inizio del 1700 superavano già il 30% e alla fine del '700 arrivavano al 47% della popolazione totale. Altre conquiste fecero si che nel 1834 i russi arrivassero a meno della metà della popolazione, mentre Tartari, Bielorussi, Ucraini, Polacchi, Ebrei e altre 200 etnie componevano la maggioranza della popolazione.
Il Nord della Russia e della Siberia è tradizionalmente abitato da popoli indigeni che erano stati padroni di queste terre fino all'arrivo dei conquistatori russi. I russi definiscono queste etnie, che spesso contano meno di 2.000 persone, popoli del Nord. Secondo i testi di storia i russi, nella loro espansione verso est e verso nord, trovarono un paese quasi deserto. L'avanzata della Russia verso il "Far East", il selvaggio Est, ricorda l'espansione prima europea e poi statunitense nel "Far West" nordamericano. In entrambi i casi i colonizzatori venivano a sovvertire profondamente l'ordine sociale e politico dei popoli indigeni. A seconda delle condizioni climatiche, la pesca lacustre e marina, la caccia, l'allevamento di renne e l'agricoltura a sud della frontiera del "permafrost" erano la principale base di sussistenza dei popoli indigeni. Prima della colonizzazione russa gli indigeni professavano in maggior parte un animismo sciamanico. Lo sciamanesimo è un elemento culturale e religioso comune a tutti i popoli indigeni.
Dal 1000 al 1300 nella parte nordoccidentale del terittorio slavo, attorno alla città di Novgorod, si formò un'area abitata da ceppi finnici. Fra queste etnie si contavano i Kareli, i Voti, gli Isciori e i Vepsi nel Nordovest, i Sami (Lapponi) di lingua finna nell'estremo Nord, i Sirjeni (oggi Komi), Permjaki, Ostjaki, Voguli (oggi Mansi) e Samojedi nel Nordest. Tutti questi popoli soggiacevano all'amministrazione della repubblica cittadina di Novgorod. I russi, in un primo momento, portarono avanti una politica di acculturazione pacifica cercando di integrare queste etnie nel cristianesimo ortodosso. Nel caso del popolo sirjeno, per esempio, la cristianizzazione andò di pari passo con l'integrazione nell'impero russo. Ma non sempre si evitò il ricorso alla violenza. Nonostante l'energica politica di acculturazione parte di questi popoli (per es. i Kareli, i Komi) hanno potuto conservare la propria identità etnoculturale fino ai nostri giorni. L'annessione della repubblica, compiuta dallo Zar Ivan III nel 1478, conferì definitivamente al Granducato di Mosca il carattere di una nazione multietnica.
Dopo la conquista militare dei khanati di Kasan e Astrachan (1556), l'espansionismo russo verso l'Ovest fu frenato alla fine del secolo dalla guerra di Livonia. Ma restava aperto l'Oriente transuraliano, dove regnava il Khan di Sibir nella regione dell'alto Ob. Nel '500 e nel '600 la Siberia era popolata da molte piccole etnie, organizzate prevalentemente in forma di tribù. Nella taiga più a nord, invece, abitavano i Tungusi manciuri e gli Jukaghiri che vivevano di caccia e pesca. I Samojedi, i Ciukci, i Kamciadali/Korjaki erano invece nomadi allevatori di renne che vivevano nella tundra. Nel sud attorno al lago Bajkal si erano insediati i Burjati, di lingua mongola, i Teleuti e gli Jakuti di ceppo turcomanno, e infine gli Sciori, pure essi pastori nomadi e allevatori di bestiame. Gli unici agricoltori in questa vastissima area erano i Tartari, concentrati nelle zone a margine della steppa e gli Ostjaki (Voguli) di lingua ugra. Sotto il profilo politico tutte queste etnie erano poco organizzate. Il khanato della Siberia occidentale era l'unico impero di una certa importanza.MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO
Per decenni la maggior parte di queste etnie si oppose piuttosto tenacemente all'avanzata russa. Già all'inizio del '700 si registravano grandi ribellioni. I popoli si organizzavano in unità piuttosto piccole ed ovviamente erano molto più deboli in termini militari. La resistenza dei popoli siberiani, confrontata a quella dei popoli non russi dell'Occidente, fu decisamente più forte, dato che la stessa organizzazione sociale diversa (società nomade tribale di fede musulmana rispetto i contadini stanziali di fede cristiana dell'Occidente) alimentava la resistenza. Le fonti storiche di questo periodo sono scarse ed impediscono un'esatta ricostruzione delle vicende. Le continue ribellioni del '700 costrinsero Mosca ad una durissima repressione per poter mantenere il proprio potere. Si applicarono misure draconiane che arrivarono a vere campagne di sterminio, come nel caso dei Ciukci.
L'opposizione sempre più compatta delle etnie non russe costrinse Mosca a modificare la sua politica di integrazione, rendendola più pragmatica, cauta e tollerante. Mosca incentivò la formazione di èlite locali confermando i privilegi dei capitribù e delegando ad essi compiti amministrativi minori e la riscossione dello "jasak", i tributi che venivano pagati sotto forma di pellicce. Per il resto la Russia optò per la non ingerenza negli affari interni delle singole etnie. Ai popoli venne concessa anche un'ampia libertà religiosa. A popoli quali i Samojedi, i Ciukci, i Ciuvasci e i Ceremissi fu permesso di continuare a praticare lo sciamanesimo.
I voivoda siberiani, governatori locali nominati da Mosca, spesso venivano esortati dal governo zarista ad essere tolleranti con le tribù ed evitare di riscuotere lo "Jasak" con la forza. Ma le autorità locali, i commercianti e i coloni non ascoltavano queste esortazioni: in molte aree regnavano la corruzione, il ricatto, lo schiavismo e la violenza. Nel 1600, per garantire l'approvvigionamento delle truppe di occupazione, la Russia aveva insediato numerosi contadini-coloni nella Siberia. Nonostante questa politica di insediamento nei territori più isolati della tundra e della taiga, i popoli indigeni riuscirono a conservare le loro strutture tribali.
Nel 1719 i popoli del Nord contavano solo 50.000 persone, ma in Siberia i russi erano già in minoranza. I contadini russi erano concentrati nella fascia di terre fertili della Siberia sudoccidentale. La caccia, l'allevamento di renne e la pesca erano le attività principali dei popoli indigeni. Nel '700 si registrò un rinnovato tentativo di integrazione dei popoli non russi nella società russa. Il modello di Novgorod, che consisteva in un controllo indiretto, fece spazio ad una stretta dipendenza amministrativa, economica e militare da Mosca.
Per lungo tempo la Russia trattò i nomadi come cittadini di serie B. Nel 1767 essi non potevano ancora partecipare alle assemblee della Commissione legislativa. All'inizio dell'800 alcuni riformatori, fra i quali il governatore generale della Siberia M.M. Speranskij (1772-1833), tentarono di "portare le etnie arretrate ad un livello di civiltà superiore". I cosiddetti inorodcy (stranieri) ottennero finalmente uno status giuridico proprio. Lo statuto del 1822 conferì loro ampie competenze amministrative. Attraverso la "legge per l'amministrazione della popolazione indigena" lo stato tentò di proteggerli dalla prepotenza dei coloni russi e dallo sfruttamento. Ma questo programma di riforme, ispirato dall'approccio illuminista e nel solco della tradizione pragmatica della politica russa per le minoranze, potè essere realizzato solo in parte. Impiegati corrotti, che riuscirono a sottrarsi ai controlli, impedirono l'affermarsi dello stato di inorodocy. Gli indigeni rimasero cittadini di seconda classe, a dispetto di privilegi e provvedimenti.
La debolezza della Cina a metà del XIX secolo favorì la conquista russa dei territori a nord e sud del fiume Amur. Le tribù indigene di stirpe manduro-tungusa - i Goldi, gli Oroci, gli Oroki, gli Ulceni, i Neghidalzi, gli Udeghi i Giljaki - subirono la stessa sorte dei popoli siberiani. Benché i Russi riuscissero a convertire questi popoli al cristianesimo ortodosso, questi rimanevano attaccati alle loro religioni animiste. L'alcoolismo, le malattie portate dai conquistatori e lo sfruttamento delle risorse naturali ridussero rapidamente il numero degli abitanti. Le etnie più numerose e più compatte riuscirono a difendersi meglio dai soprusi del governo centrale.
La politica di Nicolò I (1825-1855) mirò alla conservazione dello status quo. Ogni mutamento si rivelò pericoloso perché la modernizzazione provocava frequenti ribellioni fra i popoli locali. A partire della metà dell'800 si tornò nuovamente a una politica d'integrazione e si rafforzò lo studio scientifico delle varie etnie. Alcuni linguisti crearono alfabeti cirillici per i popoli senza scrittura quali i Ciuvasci, i Votjaki e gli Jakuti. Si elaborarono vocabolari, grammatiche e testi scolastici; venne fondato anche un istituto magistrale per la formazione di insegnanti non russi. L'obiettivo primario rimase comunque quello di diffondere la fede ortodossa. Ma verso la fine dell'800 queste iniziative furono duramente criticati dai nazionalisti russi. In ultima analisi questa politica ebbe comunque dei risultati, visto che fra il 1864 e il 1905 non si registrò nessuna ribellione significativa da parte di un popolo non-russo.
MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO All'inizio del secolo XX la Siberia diventò meta privilegiata dei coloni russi. Questi in un primo tempo privilegiavano la Siberia occidentale, ma dopo la costruzione della ferrovia transiberiana iniziarono a stabilirsi anche nella Siberia orientale. Per molti popoli la colonizzazione significò un'estensione del loro spazio vitale (Nenzi, Ciukci, Evenki, Eveni), ma per altri una drastica riduzione (Enzi, Jukaghiri, Korjaki, Itelmeni). Nel corso di un'ampia politica di rilocazione e migrazione forzata promossa dalla riforma agraria di Stolypin, entro il 1914 erano stati insediati oltre tre milioni di contadini russi. Spesso la caccia e la pesca praticate dalle popolazioni locali dovettero cedere il passo all'allevamento di animali da pelliccia, che aveva un potenziale commerciale più alto.
La maggioranza delle etnie non russe non partecipò alla Rivoluzione. Tuttavia vari popoli non russi della periferia contribuirono alla destabilizzazione dell'ordine politico. Del resto la Rivoluzione stimolò anche il riscatto nazionale di molti popoli. I loro intellettuali agitarono rivendicazioni culturali, sociali e politiche. Nel 1905 i Ciuvasci riuscirono a pubblicare un settimanale nella loro madrelingua. Ma il tentativo degli Jakuti di organizzarsi a livello politico venne subito soffocato. La "Dichiarazione per i popoli della Russia", approvata subito dopo la Rivoluzione, non venne mai applicata. Negli anni successivi all'interno del "Comitato di appoggio per i popoli del Nord" (Comitato del Nord) ci furono aspre discussioni fra chi voleva concedere ai popoli indigeni il diritto ad un proprio sviluppo culturale e fra coloro che optavano per integrarli nella classe operaia. Alla fine si imposero i secondi. Quando la Russia fu divisa nel nuovo assetto amministrativo, anche certi territori con popolazione indigena ottennero una certa autonomia. Alle terre degli Jakuti (1922), dei Kareli (1923) e dei Komi (1936) fu riconosciuto la status di repubblica autonoma. In base alle leggi vigenti i dirigenti delle singole tribù (sciamani, proprietari di renne) non avevano però l'accesso ai ranghi superiori dei Soviet locali e del Congresso. Tuttavia i Russi avviarono alcune riforme per rilanciare l'economia dei territori del Nord. Si cercò di elaborare delle lingue scritte per combattere l'analfabetismo, che era ancora molto diffuso. La politica di Lenin per le minoranze si agganciò alla politica delle nazionalità della Russia premoderna. Per conservare il proprio potere si decise di concedere più spazio alle minoranze.
Negli anni Trenta la dittatura di Stalin ebbe un effetto devastante sulle strutture economiche e sociali dei popoli indigeni. L'industrializzazione dell'URSS aveva bisogno delle risorse del Nord: la pesca su vasta scala bloccò l'accesso degli indigeni a molti fiumi, l'industria alimentare trasformò enormi aree in pascoli, i boschi vennero distrutti per fare spazio alle miniere e alle centrali idroelettriche. I popoli indigeni non furono mai coinvolti. Le loro economie venivano meno senza che fossero rimpiazzate da nuove opportunità di lavoro. Le grandi compagnie importavano i propri operai e tecnici oppure si servivano dei prigionieri dei gulag, i campi di lavoro forzato istituiti da Stalin. Tutti questi stranieri non erano sottoposti alla giurisdizione del soviet locale.
La maggior parte della Siberia fu trasformata in "proprietà collettiva". Lo strapotere dei ministeri dell'industria soffocò i timidi tentativi che erano stati fatti per contenere gli effetti dell'industrializzazione sui popoli indigeni. Il Comitato del Nord fu sciolto nel 1935. Successivamente Stalin tentò di reprimere i popoli indigeni anche dal punto di vista culturale. Il dittatore georgiano vedeva in queste differenze culturali qualcosa che ostacolava la creazione dell'homo sovieticus. Una differenza fu comunque conservata: si stabilì che a parità di lavoro gli indigeni venissero pagati meno dei lavoratori russi. Molti gruppi di Ciukci e di Eveni, ritirandosi in zone molto remote, riuscirono a sfuggire a questa sorte.
L'ascesa al potere di Stalin rappresentò per i popoli indigeni un peggioramento radicale della propria situazione. Nei loro territori, ricchi di risorse minerarie e legname, si fece strada un'industrializzazione in grande stile, senza alcun riguardo per la fragilità dell'ecosistema nelle zone artiche. Davanti al sorgere di strade, miniere, pozzi di petrolio fabbriche, le attività tradizionali degli indigeni dovettero ritirarsi per fare spazio all'industria mineraria, dell'allevamento, della pesca. Vennero disboscati vasti territori, nei fiumi vennero versati gli scarichi industriali, si interferì nel ciclo dell'acqua, si provocarono massicci inquinamenti da petrolio. Gli operai venivano maltrattati, quando non reclutati nei gulag, cosicché molti indigeni perdettero la loro occupazione. La terra venne espropriata dallo stato, i suoi abitanti trasferiti in altri territori. Nel 1877 la Russia aveva annesso l'isola di Novaja Zemlja ("terra nuova") e vi aveva insediato alcune centinaia di Nenzi (Samojedi). Nel 1955 Mosca decise di effettuare alcuni esperimenti nucleari su queste isole e perciò tutti gli abitanti vennero nuovamente trasferiti nella zona di Narjan Mar e sulle isole di Kolguev e Vajgac. Ma la distanza dalle zone dei test non fu sufficiente: ancora oggi numerosi indigeni accusano gli effetti delle radiazioni nucleari.
Nel 1937 un decreto sovietico impose l'uso esclusivo dell'alfabeto cirillico per tutte le lingue dell'URSS. A partire del 1957 ogni insegnante poteva essere arrestato se continuava a parlare la lingua indigena al di fuori della scuola. I genitori vennero costretti a battezzare i loro figli con nomi russi. Il governo costrinse molti nomadi a diventare sedentari. Gli abitanti dei piccoli villaggi vennero costretti a trasferirsi in grandi centri perché i servizi pubblici erano stati chiusi. Dopo il 1970 fra tutte le 26 lingue indigene del Nord della Russia solo il nencio continuava ad essere insegnato a scuola. Oggi é frequente che solo gli anziani conoscano la propria lingua materna, mentre varie lingue stanno per scomparire.
Nel secondo dopoguerra la situazione dei popoli indigeni rimase sostanzialmente la stessa. Alla fine degli anni '50 il governo avviò una politica di reinsediamento forzato della popolazione indigena nelle maggiori città della Siberia. Questa politica favorì la perdita definitiva dell'identità culturale, il dilagare dell'alcolismo e della criminalità. Il boom dell'industria petrolifera petrolio iniziato negli anni '60 sottrasse altri territori a tutta una serie di etnie (Nenzi, Oroki, Evenki ed altri). In varie occasioni gli operai dell'industria petrolifera attaccarono fisicamente gli indigeni e saccheggiarono le loro proprietà. Se questi si rivolgevano ai tribunali locali, spesso rischiavano di finire sul banco degli imputati.MUSEO ETNOGRAFICO SAN PIETROBURGO
L'evoluzione in senso centralistico del sistema amministrativo sovietico nei primi anni ottanta, quando persino la parola "minoranza" venne cancellata dai testi di legge, tolse ai soviet locali le ultime vestigia di autogoverno, mantenendo una mera funzione consultiva. Fino alla fine degli anni '80 il governo sovietico continuò l'industrializzazione selvaggia dei territori del Nord. La deforestazione e l'estrazione di petrolio e gas naturale continuarono a pieno ritmo. I popoli indigeni persero vaste aree di pascolo. Solo a partire del 1989 alcuni popoli iniziarono ad organizzarsi in associazioni. Nel 1990 lo scrittore Nivko Vladimir Sanghi fu eletto presidente dell'Unione dei piccoli popoli del Nord della Russia. Nella risoluzione finale del congresso convocato per l'occasione i delegati rivendicarono i diritti fondamentali dei popoli indigeni, la ratifica della convenzione ILO n.169 da parte della Russia e altre misure per consentire la sopravvivenza dei popoli indigeni.
Per assicurare il futuro dei popoli del nord si pensa, dalla fine degli anni 80, all'istituzione di territori nazionali che esercitino l'autodecisione in materia economica. E' necessario porre fine alla distruzione di insediamenti, mettere un freno all'industrializzazione, favorire i programmi locali piuttosto che quelli pilotati dal centro. Si incomincia a reintrodurre l'insegnamento nelle lingue indigene, mentre si sperimentando programmi di formazione per l'allevamento delle renne, caccia, allevamento di animali da pelliccia. Qualora un popolo sia maggioritario in un terriorio, è possibile l'introduzione dell'autogoverno.
Il fine principale di questa politica consiste nella creazione di condizioni per garantire uno sviluppo mirato sui bisogni dei popoli indigeni. Questi tentativi di riforma sono però gravemente ostacolati da pesanti apparati amministrativi, da crescenti sussulti nazionalisti, da macchinazioni mafiose, e, non ultima, dalla pesante crisi economica della Russia.

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